Una produzione sostenibile e circolare è l’unico futuro per l’industria fashion

Un capo sostenibile è anche etico, prestando attenzione tanto alle emissioni che produce quanto alle condizioni di tutti gli impiegati nella filiera

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Trace Collective - Pipi Hormaechea

Mentre tutti i servizi a livello globale diventano sempre più costosi, la cosiddetta industria del fast fashion è l’unica che, invece, continua a diminuire i propri prezzi di mercato. Il risultato? Negli ultimi decenni la vendita di abbigliamento è salita esponenzialmente, mentre la durata media del ciclo di vita dei capi è diminuita. Questo trend nel mondo della moda però non è più accettabile.

Secondo il World Economic Forum, l’industria fashion è responsabile per il 10% delle emissioni globali, più di quelle prodotte da tutti i voli internazionali e le spedizioni marine combinate. Ciò accade perché, ogni anno, oltre l’85% delle ingenti produzioni tessili diventa rifiuto, creando difficoltà nello smaltimento e un dannoso impatto ambientale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Inoltre, l’industria si avvale di una grande quantità di prodotti derivanti dal settore primario – uno dei più problematici in tema di emissioni e cambiamento climatico – senza adottare le dovute cautele e specifiche tecniche.

Per questa ragione, si è innescata una svolta sostenibile all’interno del mondo fashion. Scegliere da prodotti che aderiscano ad un modello biologico e rigenerativo, disegnare capi adottando tecniche e materiali che facilitino il riciclo e offrire trasparenza sulla propria catena di produzione stanno sempre più diventando requisiti indispensabili per qualsiasi brand.

“È un investimento che dà i suoi risultati sia a breve che a lunga durata”, ha spiegato Giulia Belpoliti, consulente di Circular Fashion e Sustainability Management in un’intervista a SmartGreen Post. “Secondo il Report Moda e Sostenibilità 2020 di Cikis, circa il 70% delle PMI italiane che hanno già investito in sostenibilità ne ha tratto profitto, riducendo drasticamente gli sprechi con un ritorno sia in termini economici che di reputazione”.

Sono molti i brand che hanno già abbracciato il concetto e grandi nomi come Kering, Prana e Patagonia si stanno muovendo i questa direzione con importanti investimenti nel sostenibile. Tuttavia, la strada non è ancora spianata.

Il rischio del greenwashing

La sostenibilità nel fashion – e non solo – è una zona grigia, dovuta alla mancanza di una chiara definizione del termine e di una regolazione adottata a livello internazionale. Di conseguenza, è facile che alcuni brand scadano nel cosiddetto greenwashing, una sostenibilità ‘di facciata’ che adotta misure green superficiali o parziali, andando a fuorviare la percezione dei consumatori e del mercato.

Belpoliti ha spiegato che, pur non essendoci uno standard internazionale, esistono però delle certificazioni valide a cui prestare attenzione, come il Global Recycle Standard o l’Organic Content Standard. “In qualità di consumatori è difficile e ci vuole tempo, ma bisogna informarsi bene”, ha detto. “Quando si vuole comprare un prodotto sostenibile bisogna fare ricerca e verificare più informazioni possibili riguardo al brand.”

“Inoltre, spesso la sostenibilità è percepita solo come ambientale mentre invece dovrebbe essere a 360°, comprendendo anche il livello sociale ed economico”, ha aggiunto Belpoliti. Un capo sostenibile, quindi, è anche etico, prestando attenzione tanto alle emissioni che produce quanto alle condizioni di tutti gli impiegati nella filiera.

Trace Collective – Emmet Green

Produzione rigenerativa e trasparente

A tale posizione si allinea completamente anche Antonia Halko, giovane co-fondatrice del marchio di moda rigenerativa Trace Collective e dell’organizzazione no-profit Trace Planet.

“L’obiettivo è quello di trasformare l’industria della moda in uno strumento di impatto sociale e ambientale positivo”, ha raccontato Halko in un’intervista a SmartGreen Post. “Il nostro team e la nostra rete europea di partner lavorano duramente per creare pezzi che non solo siano di altissima qualità, ma anche che rendano il pianeta un posto migliore”.

I suoi capi, infatti, adottano solo fibre naturali – lino e cotone organico – e del tutto sostenibili perché coltivate con pratiche rigenerative. Ciò significa che la produzione di tali tessuti riduce al minimo il consumo di acqua ed energia, aumenta la fertilità del suolo e della biodiversità e aiuta a rimuovere il carbonio dall’atmosfera.

“Tutta la produzione dei nostri capi è etica ed equa, seguendo accuratamente le regolamentazioni europee”, ha spiegato Halko. Pratiche come queste hanno certamente costi più elevati, ma una delle maggiori premure del suo brand è quella di sensibilizzare i consumatori, mostrando loro il modello di prezzo reale di ogni prodotto.

Da qui, l’intendo di mettere al centro di Trace Collective la trasparenza radicale. Tramite QR code i consumatori possono tracciare tutto il percorso del prodotto, venendo così coinvolti direttamente nella produzione. “Rivelando esattamente da dove provengono i nostri pezzi, il loro costo di produzione e il loro impatto, speriamo di riconnettere i consumatori con i loro vestiti”, ha detto Halko. “Vogliamo raccontare alle persone le storie dietro i singoli capi, cosa stiamo facendo e perché”.

Dea Lalia da Instagram

Verso un modello circolare

Ma affinché il mondo della moda segua definitivamente questi valori come riferimento e guida, è necessario un cambiamento dell’intero sistema. “Dovremmo adottare un modello circolare in cui le risorse vengono riciclate, la produzione ridotta e l’utilizzo esteso più a lungo nel tempo”, ha puntualizzato la consulente di sostenibilità Belpoliti. “Bisogna pensare anche a nuovi modelli di business come C2C [passaggio diretto fra consumatori], servizi di leasing [affitto di abiti] e riparazioni in-store”.

Belpoliti stessa ha fondato e gestisce quello che ama chiamare un “pre-loved insta shop”, una pagina Instagram sotto il nome di @dea.lalia che ripropone capi vintage e contemporanei. “Dea Lalìa è nata per scovare abiti dimenticati negli armadi o ai mercatini dell’usato, dare loro senso e mantenerli in vita il più a ungo possibile”, ha spiegato Belpoliti. “È importante educare i consumatori ad una slow consumption e abituarli a comprare usato, anche perché è bello e stiloso!”

Il report ‘The State of Fashion 2021’ dell’Istituto McKinsey  ha chiaramente evidenziato come la slow-fashion sia ormai una tendenza globale, aumentata durante il Covid-19 e destinata a crescere nel post pandemia. Un dato ancora più evidente, se si considera che il consumatore medio è sempre più informato e che i clienti del domani – i Millenianl e la Gen Z – sono proprio quelli più attenti alla sostenibilità.  

Volente o nolente, il mercato dovrà allinearsi con il cambiamento e sembra proprio che, a breve, trasparenza e sostenibilità diventeranno parametri imprescindibili per rimanere competitivi.  “Quello che finora è stato solo un invito, presto diventerà una scelta inevitabile”, ha concluso Belpoliti.

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