La parola “resilienza” deriva dal latino “resilire”, cioè rimbalzare, saltare indietro. Originariamente si parlava di resilienza quasi esclusivamente in ambito ingegneristico come la capacità di un materiale di resistere agli urti senza rompersi. Oggi invece è un termine aggiunto al nostro vocabolario e pronunciato nelle nostre conversazioni quasi per darci quella carica in più necessaria a fronteggiare le difficoltà della vita. In psicologia la resilienza indica la capacità di un individuo di reagire positivamente in seguito ad eventi traumatici riorganizzando la propria vita e lavorando alla ricostituzione di sé. Una persona resiliente è in grado di affrontare le avversità e di superarle, adattandosi alle dinamiche evolutive della quotidianità con spirito tenace e non arrendevole.
Tuttavia la capacità di essere resiliente ha radici più profonde di quelle umane. Nella resilienza ecologica si parla della “quantità di anomalie che un ecosistema può tollerare senza cambiare i processi di autorganizzazione e le sue strutture di base”, quindi dopo aver assorbito un trauma, che in ecologia è definito disturbo, vengono ripristinate le strutture e le funzioni iniziali. La natura infatti è da sempre maestra di resilienza e possiamo osservarlo direttamente con l’attuale periodo di emergenza climatica in cui aumenta notevolmente la frequenza, oltre che la veemenza, dei fenomeni naturali estremi. Essa allora dev’essere in grado di ripristinare il proprio equilibrio in seguito agli eventi impetuosi che ne hanno perturbato l’omeostasi.
Si pensi alla violenta tempesta Vaia dell’ottobre 2018, quella che nel mondo forestale è stata definita come «la martellata di Dio»: forti raffiche di vento (oltre 200 km/h) si sono abbattute sulle alpi orientali, Trentino e Veneto provocando lo sradicamento di oltre 42 milioni di alberi, prevalentemente boschi di abete rosso di origine artificiale. Lo sgomento e l’amara tristezza nell’osservare, impotenti, l’alterazione di un paesaggio alpino suggestivo, quasi fiabesco e la sensazione che nulla potesse più tornare come prima hanno attraversato i sentieri più profondi della sensibilità ambientale che ciascun uomo custodisce.
Tutto sembra irrimediabilmente perso, ma è solo “apparenza” (e comprensibile apprensione) perché il bosco ritorna ed è sempre ritornato, ogni volta diversamente, ma sempre uguale nel tempo. I disturbi, per quanto spesso dannosi, plasmano le cenosi che sono in grado di autoregolarsi e provvedere in modo autonomo alla sostituzione del soprassuolo forestale. Certamente i tempi della natura, e nel caso specifico del bosco, sono lunghi e parallelamente incompatibili con quelli dell’uomo, ma se così non fosse non esisterebbe la figura del selvicoltore, il quale opera imitando i processi naturali accelerandone i ritmi.
La difficoltà consiste proprio nella decisiva determinazione del tipo di intervento da attuare, ma anche e soprattutto delle tempistiche entro cui è ragionevole operare: il “buon selvicoltore”, in accordo ai moderni principi della “selvicoltura più prossima alla natura”, non ha fretta di ripristinare l’ambiente deturpato (salvo i casi emergenziali in cui l’intervento serva a garantire la pubblica incolumità, ad esempio attraverso la sistemazione di un versante), ma spesso si limita ad attendere e monitorare poiché i nostri tempi non posso essere equiparati a quelli della natura per cui non sempre agire frettolosamente (ricostituendo artificialmente il bosco) rappresenta la soluzione al problema; infatti, i boschi di origine artificiale – spesso monospecifici e a struttura omogenea, scarsamente differenziata – subiscono maggiormente gli effetti nocivi di un disturbo poiché più instabili (e meno resistenti) rispetto ad una foresta primaria o semi-naturale.
Con la rinnovazione naturale invece è possibile appurare l’aumento dei livelli di biodiversità e quindi la formazione di soprassuoli stabili e strutturalmente migliori: la natura è resiliente, paziente e raramente sbaglia! Quindi tendenzialmente un popolamento non antropizzato reagisce meglio ai disturbi, al netto di molteplici e complesse variabili e situazioni che presuppongono un’approfondita e accurata valutazione.
Un altro fattore con cui le foreste devono misurarsi è l’incendio. Per definizione, un incendio è un disturbo le cui cause possono essere naturali o artificiali. Prescindendo da quelle antropiche (dolose o colpose), le cause naturali dell’incendio sono legate a eruzioni vulcaniche, autocombustione e fulmini e costituiscono solo il 2% della totalità degli incendi. Se naturali, studi consolidati accertano che il fuoco funge da “agente ecologico”, fautore del modellamento e della regolazione dei soprassuoli di natura forestale, mediante la modificazione della loro struttura di partenza. Le principali caratteristiche dei disturbi e quindi anche degli incendi sono: intensità, frequenza e tempo di ritorno e da queste dipendono le risposte messe in atto dalla vegetazione e cioè la reazione degli organismi e/o organi vegetali coinvolti (resistenti o resilienti) e quindi la capacità di recupero degli stessi esplicata attraverso la ricostituzione o la successione naturale.
Esistono delle piante in grado di rispondere positivamente al fuoco e il cui effetto non appare deleterio bensì quasi “rigenerante” e stimolante, ossia le Pirofite: specie spiccatamente presenti in ambienti mediterranei dove l’aridità stagionale concorre ad innalzare il rischio di infiammabilità. Le Pirofite possono essere attive o passive: le prime dopo il passaggio del fuoco bruciano ma si riproducono prontamente per rizomi o altri organi sotterranei o gemme dormienti nelle parti aeree oppure per disseminazione favorita dal fuoco. Quest’ultimo aspetto è riconducile al Pino d’Aleppo i cui strobili si aprono, per via del calore prodotto dall’incendio, lasciando cadere a terra i semi secondo un meccanismo di disseminazione naturale; quelle passive bruciano con difficoltà grazie alla corteccia spessa (ad esempio la Sughera) o alla presenza di sostanze chimiche che inibiscono il fuoco, mostrano quindi resistenza al trauma. Allora, a differenza del resiliente Pinus halepensis, il Quercus suber è una specie resistente e non propriamente resiliente in quanto oppone resistenza al fuoco mantenendo inalterato il suo stato e la sua condizione. Ecco che, dal punto di vista ecologico e in “casistiche regolari e non estreme”, l’incendio non costituisce un aspetto irrimediabilmente negativo.
Di seguito una mia foto emblematica di come la natura sa essere resiliente e resistente dopo il passaggio del fuoco. Trattasi di un incendio doloso di fine agosto 2021 e localizzato nei pressi del Sito Archeologico di Monte Torretta, nel comune di Pietragalla, in Basilicata.
La resilienza è un concetto determinante non solo in ecologia, ma anche in ambito socio-economico, e politico. Si parla di resilienza nel PNRR, piano strategico volto al rilancio dell’economia e all’implementazione di scelte economiche ecologiche (più green) e meno impattanti, oltre che digitali e innovative. In senso stretto, la resilienza economica è associata al PIL e si misura definendo resilienti le regioni che dopo uno shock economico rientrano alle performance precedente: esse risultano “shock resistance”, in grado cioè di assorbire lo shock e di ripartire da esso al fine di ripristinare il valore di ricchezza e benessere iniziali.
Volendo essere più pratici, resiliente è l’imprenditore, l’artigiano, la cui “piccola impresa” resiste alla concorrenza e offre agli acquirenti soluzioni qualitativamente idonee alle esigenze senza soccombere sotto il peso delle potenti multinazionali.
“Tutti abbiamo delle motivazioni. La differenza tra gli individui sta nella loro capacità di farle durare a lungo nonostante ostacoli, difficoltà e problemi. La capacità di perseverare, di far durare a lungo la motivazione viene detta resilienza.”
Pietro Trabucchi