Microplastiche, cosa sono e perché sono pericolose per l’ambiente

I rifiuti di plastica si degradano trasformandosi in piccoli frammenti dannosi per la natura e per l’uomo. Ma la responsabilità è di tutti

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Una passeggiata in spiaggia si trasforma troppo spesso in una passeggiata tra i rifiuti. Sulla battigia ci si imbatte in oggetti di plastica abbandonati, buste, bottigliette, bicchieri monouso, ma anche in mozziconi di sigarette e cicche. Oggetti tutti lasciati lì dall’incuria umana, perché parlare di ambiente è semplice ma in pochi hanno veramente voglia di mettersi in gioco. Eppure basterebbe poco.

Stare attenti a conferire i rifiuti negli appositi contenitori della raccolta differenziata, sempre più diffusi sulle nostre spiagge, raccogliere gli oggetti che vengono lasciati a terra o galleggiano in mare, sentirsi responsabili non solo per sé ma anche per l’ambiente.

Basta passare una giornata in spiaggia – ma lo stesso avviene anche in un’escursione in montagna – per rendersi conto che il vero problema non sono gli oggetti e non è la plastica in sé. Sono i nostri comportamenti. Adeguarsi alle abitudini sbagliate sposta l’asticella sempre più verso il basso. Per usare una borraccia per l’acqua invece di tante bottigliette di plastica non c’è bisogno di ordinanze, come è stato fatto in molti comuni, ma di educazione ambientale. C’è bisogno della consapevolezza e dell’azione, ognuno nel suo piccolo. Serve a poco? Forse, ma è il segnale di una trasformazione in atto e questa voglia di cambiamento finirà per coinvolgere senz’altro anche i governi per una più efficace politica ambientale.

Si stima che ogni anno finiscano in mare circa 8 milioni di tonnellate di plastica in tutto il mondo, e questi numeri sono destinati ad aumentare se non si interviene con politiche drastiche atte a favorire il corretto smaltimento dei rifiuti, soprattutto quelli in plastica che maggiormente minacciano i mari di tutto il mondo.

Gli oggetti che si trovano più frequentemente sono monouso: sacchetti (di ogni uso e dimensione, da quelli della spazzatura ai sacchettini per fazzoletti), bottiglie e bottigliette di bevande e i loro tappi, bastoncini per le orecchie, mozziconi di sigaretta, palloncini, assorbenti igienici. Moltissimi i contenitori: flaconi vari, taniche, ceste. E soprattutto tanti, tantissimi frammenti di plastica, segno che molti di questi oggetti hanno già iniziato a disgregarsi.

Si tratta delle cosiddette microplastiche, delle piccole particelle di materiale plastico dalle dimensioni estremamente ridotte. Si tratta di frammenti normalmente di misura millimetrica, anche se di recente sono stati scoperti esemplari anche di livelli micrometrico, tanto che si parla più propriamente di nanoplastiche.

Le microplastiche possono avere un impatto sull’ambiente maggiore di quanto le loro dimensioni lascino credere e per questo sono ritenute una delle sei emergenze mondiali dell’ambiente. Questi frammenti, infatti, sono facilmente ingeribili anche da organismi acquatici più minuti, con il rischio di accumularsi lungo la catena alimentare fino a finire sulle nostre tavole. Ma molto più spesso il risultato è fatale per gli animali stessi. Sono almeno 135 le specie marine mediterranee che ingeriscono oggetti di plastica o vi finiscono intrappolati: alcuni muoiono soffocati, altri per blocco gastrointestinale, altri ancora non riescono più ad assorbire il nutrimento dal cibo.

A livello di Unione Europea, le microplastiche sono catalogate in base alla loro dimensione e origine:

1. Microplastiche primarie: vengono direttamente rilasciate nell’ambiente e provengono perlopiù dal lavaggio dei capi sintetici (35%), dall’abrasione del pneumatico delle auto (28%), da prodotti cosmetici come gli scrub (2%). In totale, le primarie rappresentano circa il 15-21% di tutti i frammenti dispersi nell’oceano;

 2. Microplastiche secondarie: si vengono a formare dalla degradazione di oggetti di plastica più grandi, tra cui packaging, scatole, bottiglie di plastica, buste della spesa, reti e attrezzi da pesca. Si stima che il 68-81% di tutte la microplastica presente nei mari sia proprio di origine secondaria.

Questi frammenti hanno tempi di degradazione lunghissimi una volta immessi nell’ambiente, del tutto analoghi a quelli della plastica di dimensioni maggiori: si parla di centinaia di anni, una longevità spesso resa ancora più estesa dalla presenza di speciali trattamenti chimici.

La direttiva dell’UE che vieterà il monouso a partire dal 2021 è un passo avanti verso il cambiamento ma passare dalla “plastica tradizionale monouso” alla “plastica biodegradabile e compostabile monouso” non risolve il problema. Infatti, gli impatti del ciclo di vita (dall’estrazione della materia prima, alla produzione, uso e smaltimento finale, non trascurando i trasporti) degli oggetti monouso in materiale biodegradabile e compostabile, sulla base di studi scientifici, possono risultare superiori a quelli dei corrispondenti oggetti tradizionali.

Il problema principale, quindi, è l’eccessivo utilizzo di oggetti monouso e il loro non corretto avvio a recupero di materia e di energia. Occorre investire in politiche di riciclo e riutilizzo, puntando su tecnologie ad hoc per dare nuova vita ai materiali usati, soprattutto quelli in plastica, in modo che non si deteriorino e decompongano nell’ambiente causando gravi danni all’uomo e alla natura.

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