Alpinisti italiani in Antartide trovano microplastiche nel ghiaccio

Rientrati in Italia i tre alpinisti Cavalli, Sanguineti e Dell'Agnola, tutti accademici del Cai. Durante la spedizione l'apertura di nuove vie e la raccolta di campioni di ghiaccio per la verifica della presenza di microplastiche

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Verificare la presenza di microplastiche nei ghiacci antartici: è questo lo scopo finale dell’Antartic Expeditions 2020 promossa dalla Sezione di Biella del Club alpino italiano, dal Cai centrale, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) con il patrocinio di Città di Biella e di Fondazione Cassa di Risparmio di Biella.

Alla spedizione, che aveva obiettivi scientifico-esplorativo-alpinistico e che si è conclusa pochi giorni fa, hanno partecipato Gian Luca Cavalli, Marcello Sanguineti e Manrico Dell’Agnola, tutti accademici del Cai: i tre alpinisti hanno infatti raccolto campioni di ghiaccio che saranno analizzati dall’Istituto di Scienze Polari del Cnr per verificare la presenza microplastiche e testato nuovi capi prodotti con tessuti innovativi.

Cavalli, Sanguineti e Dell’Agnola però si sono spinti oltre, con la salita al Gateway Ridge (700m), dedicata al “Terzo Paradiso”, opera artistica di Michelangelo Pistoletto. E proprio dopo una simile impresa, i tre alpinisti si sono concessi una giornata di riposo.

«Abbiamo girovagato con l’Ice Bird» scrivono nelle loro cronache «lungo Neumayer Channel e la Borgen Bay, binocolando le pareti e i ghiacciai: Harbour Glacier, William Glacier, Hooper Glacier, Thunder Glacier… Di tanto in tanto facciamo riprese con il drone. Intorno a noi, balene che spuntano e si immergono di nuovo, pinguini che balzano fuori dall’acqua e saltano sugli iceberg, foche che condividono gli iceberg con i pinguini. Per i giorni successivi prevediamo di effettuare in nuove zone i prelievi per il progetto con il Consiglio Nazionale delle Ricerche; per questo programmiamo un paio di salite scialpinistiche che, tra l’altro, ci regaleranno qualche bella discesa in sci. Il 19 gennaio saliamo sul Noble Peak (720m). Come al solito, la partenza è rigorosamente in ramponi dal filo dell’acqua, per risalire un pendio a 45° e arrivare sul pianoro glaciale.

Dapprima saliamo lungo il versante nord. I grandi crepacci perpendicolari alla linea di salita ci costringono a continui zig-zag, visto che spesso, quasi come se il ghiacciaio volesse prendersi gioco di noi, i ponti si trovano alternativamente all’estrema sinistra e all’estrema destra. Poi, per evitare alcune seraccate, scavalchiamo il filo di cresta e prendiamo un ripido pendio che conduce in prossimità delle cornici sommitali. Aggirandole sulla destra puntiamo alla vetta, prima della quale occorre nuovamente calzare i ramponi. La discesa sul versante nord-est è strepitosa: le pendenze sono varie e ideali per provare tutti i raggi di curva, pur di far attenzione ai crepacci. Dopo il pick-up da parte di Dave, nello stesso punto in cui la mattina ci aveva lasciato il gommone, eccoci nuovamente a festeggiate sull’Ice Bird».

Cavalli, Sanguineti e Dell’Agnola il giorno dopo partono quindi per il Jabet Peak (545m), un’altra salita scialpinistica abbinata a prelievi. «Anche questa volta la discesa è puro godimento», continuano nel racconto, «compreso l’ultimo pendio ghiacciato e ripido, che costringe a curve strette per non perdere il controllo e finire sulla scogliera di turno. Per non farci mancare nulla, decidiamo di dedicare il 20 gennaio al kayak. Modificando un po’ uno spot pubblicitario di una nota carta di credito, mi viene da dire che calare le canoe dalla barca nelle acque antartiche non ha prezzo. Quello che viene dopo è un’indimenticabile pagaiata in mezzo agli iceberg, di fronte a colonie di pinguini che ogni tanto si tuffano e riemergono uno dopo l’altro in prossimità dei kayak e fra le foche leopardo che vengono a curiosare. Rientrati sull’Ice Bird, facciamo il punto della situazione ancorati vicino a Damoy Point. Scarichiamo l’aggiornamento meteo con la connessione satellitare.

Per i tre giorni successivi le previsioni sono buone, poi dovrebbero arrivare tre perturbazioni, che sembrerebbero convergere proprio nello Stretto di Drake. Potremmo fermarci in Antartide ancora 2-3 giornate, ma questo significherebbe o affrontare la traversata del Drake nelle peggiori condizioni immaginabili o il rischio di dover aspettare altri giorni il ritorno di una finestra favorevole e perdere il volo di rientro da Ushuaia. Decidiamo quindi di partire, in modo da avere alle spalle il tratto più critico della navigazione quando arriverà il maltempo. Togliamo le ancore e costeggiamo il versante sud-ovest dell’Anvers Island, lungo il Bismark Strait, tra la Biscoe Bay, dove arriva il gigantesco ghiacciaio Marr Ice Piedmont e le Wauwermans Islands. Alle nostre spalle spuntano Cape Errera e il Dayne Peak verso nord e le torri di Cape Renard verso sud. È iniziato il nostro rientro attraverso lo stretto di Drake».

Il 28 gennaio infine l’ultima tappa: «L’attraversamento dello stretto di Drake è più tormentato che all’andata. Ci riserva un bel po’ di sballottamenti e, sinceramente, facciamo il conto alla rovescia per terminarlo. Riusciamo a superare Cape Horn prima dell’arrivo della perturbazione annunciata. In attesa di un miglioramento delle condizioni del mare, ci ancoriamo a Puerto Williams e dedichiamo un paio di giorni a rilassarci e a un po’ di trekking. Il 27 pomeriggio è la volta di un’indimenticabile cavalcata nell’infinità patagonica. Il 28 mattina ci imbarchiamo alla volta di Ushuaia».

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